domenica 15 dicembre 2013

Si Scrive

Forse si scrive, prima di tutto, per necessità.
Per non dimenticare chi si è, per non scordarsi di sé stessi.
Per ritrovare, dopo una giornata passata a indossare maschere, la propria essenza ancora dentro di sé.
Si scrive con l'acqua alla gola, in cerca del sollievo che segue il ritrovo del proprio spirito, nel constatare che è ancora lì.
Si scrive per conservare quel piccolissimo spazio della nostra intimità; per alimentare e non far spegnere la fiamma della nostra dignità.
Si scrive per elevare sé stessi dalla superficie, si scrive per purificarsi, si scrive per redimersi, per riscoprirsi sani e salvi.
Si scrive, soli e in silenzio, per dire qualcosa di importante col rispetto, la solennità e il pudore dell'unico luogo dove è possibile farlo: quel foglio bianco, quell'inchiostro.
Si scrive perché si è consapevoli della propria posizione, della propria situazione: si scrive per non dimenticarla.
Si scrive perché la carta è l'unica compagna a cui ci apriamo davvero; si scrive perché con lei scompare l'imbarazzo che sempre riscontriamo tra i nostri simili.
Si scrive perché equivale ad entrare in un tempio: per raccoglimento interiore.
Si scrive per combattere la stupidità con cui facciamo i conti tutti i giorni, la mediocrità quotidiana che vuole legare le nostre ali, la morta ironia e la vuota simpatia dell'esercito di replicanti sedicenti brillanti.
Si scrive per accendere un fuoco nel deserto notturno.
Si scrive per restare vivi.
Si scrive per restare liberi.

mercoledì 27 novembre 2013

Transdanubio meridionale

Fino a qualche anno fa, a dir la verità, non mi è mai importato nulla del mondo rurale. La campagna era un bel posto, un’occasione, ma nient’altro. Fino al mio ingresso all’università ero stimolato unicamente dall’idea di andare a vivere in una grande città: il mio universo di valori si accordava a questa idea, nutrito delle possibilità che essa offre. Ma al di fuori di esso c’era una grande ignoranza. Questo è significativo se si è nati e vissuti in un posto come la Sardegna. Il mare è un vincolo ma anche una madre. Ti limita e ti protegge. Sentivo la mia vocazione fosse per il pensiero puro, del resto non mi importava un granché. Tutto era in funzione di questa passione primaria.
Guardandomi indietro acquista sempre più evidenza che poter studiare Architettura è un dono, una fortuna. Tra le discipline che considero più deformanti (da intendere in un senso positivo) ci sono anche la Filosofia, la Matematica, la Medicina, la Psicologia. E non posso fare a meno di pensare al punto di vista dominante che ottiene chi studia una di esse. Il primo vivrà sulle cime del pensiero più fine, al di là degli stereotipi ma soprattutto degli orizzonti di pensiero attuali. Nella solitudine intellettuale che questo genere di coscienza comporta, il dubbio per ogni cosa sarà il suo unico compagno. Il secondo non lo so descrivere se non come un innamorato, o un folle, o un disadattato in alcuni casi: ma comunque una mente inafferrabile per tutti, tranne che per un altro affine. Un mio professore diceva sempre: <<la Matematica è la donna più bella, ma va corteggiata, va conquistata…>> non so se fosse vero, ma la follia e l’amore nei suoi occhi, quelli sì che lo erano…
Al terzo vanno una visione del mondo in funzione dei benefici o dei danni sul corpo. La costante consapevolezza del significato e delle conseguenze dei propri eventuali sintomi; di quelli altrui. Ma soprattutto, sapere sempre di essere il responsabile di altre vite, e di gestire non di rado il momento della loro fine. Da figlio di due medici, credo che per questo mestiere prima che la conoscenza ci voglia il carattere giusto: ma questa è un’altra storia..
Il quarto vedrà sempre il nostro comportamento come l’esito di qualche scompenso nell’inconscio, nevrosi, traumi e così via. Se da una parte è una potentissima arma in più quando si tratta di capire e gestire gli altri, dall’altra ti condanna ad un rapporto di analisi costante tra te e le persone con cui ti leghi. E con te stesso, ovviamente.
Se penso all’Architettura, penso che il dono più grande che essa offra sia quello di aprire gli occhi alla Bellezza. Chi entra davvero in essa, non torna più indietro. Ogni città diventa una enorme tela da guardare ad occhi bene aperti; il mondo diventa un museo. E non solo ogni città: inevitabilmente anche tutto il suo intorno. Il paesaggio, bello e piacevole ad un occhio comune, si svela come qualcosa di ben più profondo…
E cosi l’architetto condivide il destino dello scrittore, del pittore, del poeta: di colui che cerca di afferrare l’inafferrabile per riproporlo nel proprio fare. E’ come svegliarsi ogni giorno in un atelier: a volte quello che si vede proviene dall’uomo, altre dalla natura, altre ancora da entrambi. C’è sempre un gran lavoro.
Se penso ad un mestiere simile, penso al musicista. Credo che il musicista e l’architetto abbiano un’affinità fortissima eppure discreta per almeno due motivi: entrambi si occupano del “comporre”; entrambi vivono nella costante percezione della bellezza… ad uno tocca l’udito, all’altro la vista. Nel momento della composizione, in particolare, credo che la sovrapposizione avvenga in modo pressoché perfetto…
Queste considerazioni che ora qui raccolgo si sono manifestate chiare come il sole durante il viaggio verso il sud dell’Ungheria. Siamo partiti alle 5 del mattino,  prendendo un’ora di anticipo rispetto all’arrivo del sole. Un’arrogante illusione, perché non ci ha messo molto a raggiungerci, indifferente alla nostra fuga mattiniera. Cresceva la sua luce e con essa queste impressioni. L’intorno prendeva forma, e finalmente iniziavo a vedere che cosa fosse l’Ungheria: un’immensa pianura. Per avere un’idea della sua estensione, bisogna immaginare una superficie piana veramente immensa. Oppure, collocarsi al di sopra di una collinetta di 200-300 metri che di tanto in tanto è presente sul territorio. E scoprire così, per esempio, che da un’altezza così misera la vista si estende come se si vedesse New York dall’altra parte. Solo che dall’altra parte non c’è New York, ma le Alpi. E non è un modo di dire: si vedono davvero, nelle giornate a umidità zero. Che sono un evento tutt’altro che raro in questo Paese. Questo e altro si svela nel viaggio verso il sud. E più la luce si fa intensa, più appaiono novità e dettagli ulteriori. Chi ama il verde dovrebbe venire in questi posti: non ho mai visto così tanta varietà dentro un colore solo. Non ce n’è uno uguale eppure, tolti gli oggetti umani, esso è il colore largamente dominante, quando non l’unico. In un altro universo, l’impressionismo sarebbe nato in Ungheria. In un’altra storia, l’Est non ci sarebbe sconosciuto…
poiché continuo a chiedermi cosa mi spinge in questi posti. Non lo afferro, ma lo sento, sempre. Non capisco e vivo sempre con amarezza il confine mentale tra questa Europa e la nostra Europa, ma allo stesso tempo sono consapevole che senza di esso, molto sarebbe perduto, fagocitato dal nostro fare occidentale. Il desiderio che tutti sappiano e il bisogno che rimanga un segreto convivono in uno spazio mentale in modo sconosciuto. Un parossismo inalienabile. E mentre ripenso a questo leitmotiv iniziato oltre due anni fa, questo paesaggio un tempo dell’impero Romano passa in rassegna tutte meraviglie in serbo per occhi avidi. Mi sento come all’aeroporto, davanti al macchinario che trasporta le valige. Solo che su di esso non valigie, ma viste, colori, variazioni, suggestioni, movimento, immagini che si susseguono;  a muoversi non è lui, ma io. E mentre questa carrellata di stimoli sembra non finire mai, io oscillo tra il sogno e la veglia, quindi tra la percezione razionale e suggestioni fantastiche, ed infine, vinto dal sonno, mi addormento.
Sveglia. Come da copione, ci si sveglia sempre quando il mezzo si arresta. Non importa che sia una macchina, un treno, un pullman: tu riprenderai coscienza sempre quando ciò che ti trasporta inizia a rallentare in modo definito. Non ho mai capito il perché, ma è una cosa che mi ha sempre colpito e affascinato: alle stazioni mi diverto a guardare i pullman che arrivano rallentando, e nel rallentare osservare il lento risveglio dei passeggeri, sempre di una coordinazione stupefacente col l’arrestarsi del bus…
Chissà se quel giorno c’era qualcuno a guardare me. In compenso c’era qualcuno ad aspettarci, la ragazza del mio amico. Ci muoviamo il tanto da scendere da un veicolo per salire su un altro. Ed eccomi di nuovo in viaggio. Dove? Non chiedo. Mi viene detto che andiamo “in alto”. In alto…. Non capisco, ma va bene. Andiamo in alto. Rapidamente, iniziamo a salire ripidamente. Allora non capisco, perdo la mia sicurezza spazio-temporale. Da dove spunta questa pendenza?  Probabilmente c’è qualcosa che mi è sfuggito mentre dormivo. Continuiamo a guadagnare metri in altezza. Dopo un non breve susseguirsi di curve improvvise nel verde questa strada accompagnata da villette ai suoi lati biforca. Non so dire se abbiamo preso la destra o la sinistra, quello che ricordo è che arriviamo di fronte al primo punto panoramico. Parcheggiamo e scendiamo a piedi un po’ più in basso, dove l’accesso al panorama e la dinamica percettiva sono state progettate in modo discutibile. Ciò non toglie nulla alla grandezza del paesaggio, al contrario. La morfologia del territorio ungherese consiste unicamente in questi piccoli colli sopraelevati sperduti in mezzo ad un’immensa pianura. Il senso, se questo termine può essere utilizzato, di questa disposizione altimetrica si comprende pienamente da uno di questi punti. Sembra di stare in uno di quei disegni settecenteschi dove la città viene rappresentata a volo d’uccello. Ma il meglio deve ancora arrivare. Questa vista è quanto di meglio si possa desiderare, un po’ come da noi il mare, eppure è suo destino essere presto superata. Rientriamo in auto e, nuovamente, andiamo più su. Sembra  incredibile, pare ci sia un dell’altro “più su”. Colli nascosti nell’Ungheria, prossimi al territorio Croato. Mi viene in mente che prima parte di quel territorio era anch’esso ungherese,  che Roma e Budapest furono vicine di casa, Trieste e Gorizia le porte di ingresso. Per un attimo mi sento ungherese, me ne fotto della storia e sento cosa vuol dire non aver più gran parte di un territorio che fino a cento anni prima hai chiamato casa. E’ troppo, così decido di tornare al mio esser sardo. I confini, per noi così chiari, serbatoio di sentimenti identitari, col mare che sancisce senza possibilità di dubbio alcuno quale sia la terra,: cosa sono i confini in questi luoghi? In un territorio dove un grande fiume sembra l’unica certezza possibile, come gestire il punto di incontro tra un popolo e un altro? Che sensazione è quella che si prova quando casa tua si estende per altri 50-100km di nuovo territorio o l’inverso, quella per cui tale spazio che sentivi come casa non è lo è più? La nostra circostanza geografica, sociale ma soprattutto, credo, psicologica è agli antipodi e credo che al più potrò immaginare, avvicinarmi a capire cosa questo significhi in termini esistenziali ed emotivi, ma non credo lo capiremo mai.
Intanto, però, riesco a capire che la macchina si è fermata. Dove siamo? Giusto, “più su”. Uscendo dalla macchina, inevitabilmente devo alzare la testa, perché una torre-antenna si innalza da noi per altri 400 metri “più su”. Ed e sui quei 400 metri che ci stiamo dirigendo. Mi sembra incredibile, ma saliamo. Un simpatico guardiano, divertito dalla mia faccia curiosa e inquieta, spiega brevemente nel suo idioma la storia di questa antenna. L’ascensore si ferma, eccoci arrivati. Questo è il momento in cui l’insuperabile vista di qualche minuto prima viene scavalcata senza alcuno sforzo. Una vista a 360 gradi nel cuore dell’europa. I miei amici godono evidentemente della mia faccia, ma si stupiscono del mio silenzio.
E come spiegarglielo.
Come puoi raccontare un mondo che ti porti dentro.
Anzi, è vero il contrario. E’ il mondo dentro che porta te, lì fuori.
Dovrei iniziare da… non so neanche da dove dovrei iniziare. Da Bucarest? Dalla musica? Dall’architettura? Dalla lingua? Da dove?? Non è così facile, non c’è un inizio e una fine. E’ un cerchio. C’è solo uno tsunami di percezioni e sensazioni che adesso salgono a galla e mi conducono inevitabilmente al mutismo. Vorrei dirgli che sono commosso. Vorrei ringraziarli di essere lì, ma in modo adeguato. Come nell’antichità, sfilerei le loro scarpe per sciacquarne i piedi e baciarli poi. E tornano le ossessioni, le idee, le deformazioni mentali, le utopie, le storie accadute e quelle mai esistite, il mondo fuori e il mondo dentro.
Ma da fuori avrete visto solo un barbuto silente con lo sguardo fisso su un punto a caso. Poco ci manca che mi prendano per uno psicopatico. Se non altro loro si fanno una risata, e questo mi solleva.
Tocca scendere. Rinato dopo questa esperienza metasensoriale, ci muoviamo per un giro veloce nella città, che nelle dinamiche urbane mi ricorda, a tratti, Oporto: le salite, le discese, le aperture degli spazi pubblici, etc. Sembra una città di fiume, o di mare, senza un mare, o un fiume. Di Pecs mi hanno sorpreso principalmente due cose: il suo essere mediterranea nella composizione urbana, nel clima e nelle persone, e quel meteorite carico di significato che è la moschea al centro della piazza barocca. Un’ingerenza stupenda che da una forza enorme ad una città già di per sé inaspettata nella sua conformazione e nelle sue somiglianze con la sua, a parer mio, sorella maggiore in Portogallo. Lasciamo la città. Ci aspettano a mezz’oretta da qui, a venti chilometri dalla Croazia. Si cominciano ad intravedere i vigneti mentre arriviamo nel piccolo paesino di Kirsharsàny. Siamo appena arrivati, ed ecco che già subisco le tradizioni locali: immediatamente la madre ci serve da mangiare e da bere. Palinka, ovviamente. E lei ne beve parecchia. Questa signora si rivelerà ben presto essere il perno fondamentale intorno a cui si svolge la vita della famiglia e a ben vedere di una comunità più ampia. Dopo questo pasto, riposiamo per via del lungo ed estenuante viaggio. La sera si svolge tranquilla, e dopo cena facciamo un salto alla festa del paese vicino. Naturalmente io sono costretto al silenzio a causa del muro linguistico; l’inglese d’altronde non funziona come canale di comunicazione in queste piccole realtà. Ma non è un problema: è incredibile quante cose si possono dire, senza parlare. E il mondo della campagna ha un vocabolario infinitamente più ricco di quello della città;  include non solo parole, ma gesti, sguardi, espressività. La prima notte passa serena. Mi sveglio alle sette, ma è come se mi fossi alzato a mezzogiorno, fresco e riposato: merito dello sforzo del giorno precedente,  con la sveglia alle 4 del mattino. La signora è già in piedi, che cucina le ultime cose per il pranzo. Si, perché la colazione è già pronta sul tavolo, preparata fino a poco prima. E inizio domandarmi a che ora si sia alzata questa donna. La colazione infatti non è per il piccolo ambito familiare, ma è preparata per tutto l’esercito di parenti chiamato a raccolta per la raccolta. Mi sfiora l’idea di cosa debba essere il pranzo e del lavoro che c’è dietro, ma è già tardi: il vigneto ci aspetta. Andiamo. Viene anche lei. 5 minuti e siamo sul posto; scendiamo dall’auto, secchi e trattore sono in fila. Si sistemano i ranghi, via. Una volta tagliato il primo grappolo mi rendo conto di entrare in una sorta di trance: è come un rituale. Lo stesso gesto, infinite volte. Tuttavia a differenza della produzione industriale non sento una perdita o un’alienazione, ma un arricchimento. Capisco ora la differenza abissale tra i due mondi, la sento nella pratica. E capisco anche come faccia questa gente a raccogliere, tagliare, a fare sempre gli stessi gesti. Si innesca un meccanismo interno per il quale l’esperienza lavorativa, benché duri tutto il giorno, viene percepita come un movimento univoco, come se tutti i tagli fossero un taglio, come se tutti i grappoli raccolti fossero un unico grappolo. E succede così che si esce da questo stato mentale quando viene tagliato l’ultimo grappolo, cioè quando il cerchio si chiude. È come addormentarsi, svegliarsi e non sentire la distanza temporale durante il sonno. Così questo è uno dei modi con cui potrei raccontare questa esperienza, e non direi il falso se scrivessi che è iniziata tagliando un grappolo e tagliando un grappolo è finita. Ma dietro questa melodia fondamentale di sottofondo che dava il ritmo a quelle 5 ore sotto il sole c’è un mondo che bisogna se non altro accennare. Dunque, tra un trespolo e l’altro, mi rendo conto di trovarmi con gente che è invecchiata solo anagraficamente: sono tutti sulla sessantina, ma svegli e attivi. E a farla da padrona sono le donne. Una in particolare fuma tanto quanti sono grappoli che taglia. E ne taglia parecchi. E nel chiacchierio generale è lei che da il motivo di discussione e non la fa mai concludere, se mai stesse per accadere. Mi sento come ad un concerto per uno strumento specifico, dove lei è quello strumento e gli altri l’orchestra. Tutto  è in armonia ma è lei che dirige e gestisce, che risalta. Non ci mettono molto a dirmi perché: pare dica una porcata dopo l’altra, una migliore dell’altra. Non le capisco, ma vedo le espressioni e le risate circostanti, deve essere veramente fenomenale. Darebbe mattanza a molti cabarettisti di paese che conosco. Ogni tanto mi si avvicina uno dei vecchi, è l’unico che parla inglese. Quando è arrivato il comunismo, è emigrato in Australia e ci ha vissuto per quarant’anni. Sono molti gli ungheresi di quella generazione che possono raccontare la stessa storia. E’ tornato in patria e adesso possiede una bellissima casa nel paese. Mentre parliamo, arriva la fatidica domanda che perseguita ogni italiano all’estero: << What do you think about Silvio Berlusconi? >>.
Non ci posso credere. Sono in Ungheria, in un posto sperduto a venti chilometri dalla Croazia. E mi chiedono di Berlusconi. La mia risposta non è difficile da immaginare. Nel frattempo il lavoro procede, e tra una fila e l’altra del vigneto, si beve vino. Così arriviamo all’una con i vigneti vuoti, e le bottiglie pure. Ho una fame atavica. Rincaso con tutto l’esercito, e la mamma della mia amica è già pronta a servire il pranzo. Realizzo che fino a 5 minuti prima era a lavorare con noi. Realizzo che quando mi sono alzato la mattina, lei era già sveglia due ore prima a preparare la colazione. E ora e lì che serve da mangiare all’esercito, e io sono stanco morto. Mi sento minuscolo di fronte alla forza di questa donna. Si, perché pare abbia preparato 100 involtini di carne e cavoli, e li sta servendo a tutti. E mentre tutti iniziano a mangiare, lei è ancora là, che serve, ride, parla, gestisce e domina la situazione. Energicamente. Una vera Domina, come vuole l’espressione latina. Il pranzo termina più o meno alle 16, e io ho un macigno dentro allo stomaco. Non posso alzarmi. I miei amici sono nelle mie stesse condizioni, cosi decidiamo di tornare alla casa nel paese per riposare. Il riposino si conclude alle 19 di sera. Stanchi come fossimo schiavi. Scendiamo e lei è ancora là, che cucina, parla, fa, ride. Energicamente. Una specie di doping naturale. Stordito,  mi siedo, e la serata trascorre tra il mio silenzio e il confortevole chiacchierio intorno a me. Si conclude così il giorno lavorativo, circondato da un idioma estraneo ma dentro una situazione di un’intimità e di un calore estremo. Sentirsi a casa, altrove. Mi addormento considerando tutta la limitatezza della comunicazione, se ridotta alle sole parole.
Il terzo giorno ci alziamo intorno alle 9. Ci aspetta una breve escursione fino alla casa del signore ungherese vissuto in Australia per 40 anni. Attraversiamo così un paesaggio composto da strade sterrate, abitazioni spontanee e vegetazione dominante. Saranno 20 minuti scarsi di camminata leggera, ma la ricchezza dei vali elementi, urbani e naturali, che ci si presentano davanti fa sembrare questo posto più grande e più articolato di quello che effettivamente è. E’ un costante ripetersi degli stessi elementi primari declinati in modi differenti, con sfumature diverse, ma tutte facenti capo alla forma generatrice; ed io ovviamente non posso evitare di notare questo: come un testo, ne leggo la grammatica e ne interpreto relazioni e significato. Sintassi e struttura, fisica e formale, la composizione di queste quattro variabili di base che genera un paesaggio pittoresco e architetture semplici di una forza notevole; la cui intensità, appunto, sta nella loro immediata semplicità. Non dicono molto più di quello che sono. Discrete, dicono chiaramente la loro intenzione. E così, prestandosi naturalmente alla composizione, alla giustapposizione e alla stratificazione, questi elementi costituiscono lo sfondo, la scenografia sul quale la vita di questo piccolo paese scorre. Ci fermiamo in una di queste case, dove un amico di famiglia che pare il fratello di Che Guevara ci offre da bere palinka. O forse era unicum, non ricordo. Purchè sia da bere, questa è la regola. Molte delle case si svelano essere, in verità, cantine o case-cantine: sul retro si trova un rigonfiamento sotto il quale si trovano, appunto, le botti. L’accesso è all’interno dell’unità abitativa. Architettura e vino: qua una cosa non può prescindere dall’altra. E penso per un attimo al concetto di architettura organica, e a tutti i ghirigori e le false idee che lo hanno alimentato. E mi chiedo allora se non sia questa una realtà infinitamente più organica, nel senso storicamente inteso del termine, di quella sin’ora proposta; in cui un’ingerenza  dettata dalla necessità contingente deforma spazialmente, e funzionalmente, uno spazio archetipico, che per sua natura si lascia deformare entro un certo margine. Come le idee di Platone, calate nella realtà si corrompono; ma in questo caso la corruzione si dimostra essere invece arricchimento, una nuova variante al tema, una nuova possibile soluzione al medesimo problema. Bevuto il cicchetto mattutino al suono di egészségedre, ci dirigiamo poi alla meta, che non dista se non 5 minuti a piedi da lì. Il vecchio uomo che parla inglese, ci attende al varco, ci vede, mi riconosce. Ci accoglie in casa e le considerazioni architettoniche sarebbero state le prime a venire, se ci fosse stato l’unico oggetto capace di catturare tutta la mia attenzione cancellando il resto: un pianoforte. Appurata la presenza chimerica nella stanza, mi viene fatto cenno di seguire l’anziano signore, che ci fa fare un breve giro della casa. Si tratta di una villa in stile, risistemata e abbellita dalla cantina sottostante. Finito il breve giro, torniamo al salone del piano terra. Dove, prima di concedermi un’esecuzione, sono invitato ad assaggiare la palinka fatta in casa. Un’offerta che non potrò rifiutare. E così la prima, forte ma saporita. Poi tra il suo sorriso denso e un incerto cenno d’assenso, ci beviamo anche la seconda. E la terza. E la quarta. In meno di 10 minuti mi rendo conto di aver bevuto 6 o 7 bicchierini. Normalmente, sarei già partito per la tangente. Invece, per qualche influsso magico del posto o più probabilmente per l’alcolismo galoppante, una piacevole sensazione di armonia si impadronisce della mio corpo e della mia mente, al pari di quella di una normale bevuta tra amici. Solo adesso mi viene concesso di suonare il pianoforte. Il cocktail tra l’alchool e la mancanza di suonare un pianoforte funziona alla grande: così alla fine il mio amico mi dice che se voglio suonare qualcosa di allegro, è evidente che devo bere prima, altrimenti tendono a venir fuori melodie tristi o malinconiche. Vorrei dirgli che succede così perché le melodie malinconiche mi vien meglio gestirle e, forse, si accordano di più al mio stato costante di quando sono sobrio; vorrei anche accennargli Dioniso ma a quel punto la mia mente è metri avanti alla mia lingua, così mi limito a sorridere e fare si con la testa. Si fanno le 13, è ora di tornare a casa per pranzo. Arriviamo alla tavola bandita evidentemente sbronzi, o allegri andanti. Il pranzo ha le dimensioni appena inferiori rispetto a quello del giorno prima, e immediatamente ricordo l’infinita energia di questa signora, e nuovamente ne sono sbalordito. Mangiamo, come sempre capisco parole a momenti e cerco da esse di ricavare il significato generale di ciò che viene detto. Provo la sensazione di essere bombardato costantemente da rebus orali e non visuali. Finisce il pranzo, e il resto della serata passa tranquillo nella casa. Ma dal caffè che segue al pranzo, c’è già nell’aria la consapevolezza che a breve bisognerà partire per il nord. Gyor chiama. E iniziano così nel primo pomeriggio ad essere sistemati i bagagli, zaini in spalla, tempo mezz’ora ed eccoci pronti a lasciare il sud. Mi viene in mente la frase di una pellicola italiana non troppo datata, Così parlò Bellavista: Si è sempre i meridionali di qualcuno. Credo sia una grande verità. Il sud è uno stato mentale e culturale, prima che geografico. Potrei dire che è un misto tra semplicità, complicità, onestà, chiarezza, gioia di vivere, e tutte queste cose; ma nessuna di queste cose fa comprendere appieno il senso e nemmeno la somma di esse, al più danno un’idea. Chi, forse, fa capire appieno cosa è sud, è Rino Gaetano nella sua canzone, e può farlo proprio perché la collocazione geografica è non è la caratteristica più importante in quanto non è assoluta. Le caratteristiche sono altre, e appaiono in tutta la loro chiarezza nel testo di Ad esempio a me piace il sud. Si è sempre il sud di qualcun altro.
E così salutiamo questo Sud, un po’ ungherese, un po’ croato, decisamente mediterraneo. E mentre il paesaggio scorre nel finestrino, all’inverso rispetto all’andata, come se avessi messo un film dalla fine e lo mandassi al contrario a colpi di telecomando, io rivedo il paesaggio urbano che cambia, il paesaggio naturale che cambia. E mi rendo conto che i miei occhi sono sempre appagati, ma non sono mai stanchi di vedere. E che sono cambiato, forse, almeno un po’. Ed un’unica, costante e ossessiva certezza, pensiero, imperativo categorico pulsa nella mia mente: continua a viaggiare.

mercoledì 11 settembre 2013

Itt Vagyok



Danubio. In questo momento vorrei che le mie parole scorressero come le tue acque, e che avessero la forza della tua corrente. E invece non riesco a dire proprio niente. E ce ne sarebbe, saprei che cosa, mille volte ti ho pensato; eppure eccomi ridotto al quasi totale silenzio. Tu richiedi profondità, ed io sono saturo di superficialità. C’è qualcosa che ho perso, prima di arrivare qui. Una chiave di lettura che mi ha condotto da momentanee fantasie a calpestare terra magiara. A sentire odore di frontiera per la prima volta davvero. A guardare la Storia che cozza con un passato glorioso e un futuro che vuole esser altro, insomma un tentativo di nasconderla rozzo e puntualmente fallimentare. Ma è questo costante tentativo, questa contraddizione pulsante che sprigiona il profumo di un popolo, e di un insieme di popoli, che dietro questa linea di apparente diversità e alterità dal nostro perfetto occidente sgomita e spinge, cercando una via di uscita; mostrando a chi osa vedere dietro una cortina non ancora caduta un’essenza e una vitalità arcaica e indomita, che proviene dalle viscere e che noi probabilmente abbiamo perso per sempre.
E’ indubbio, oltre che produttivo, che nel raccontare ci guidi la nostra soggettività. Ma tale aspetto della forza vitale di questi popoli accennato qui sopra non sono ancora riuscito a spiegarlo con le parole. E tantomeno, per questo stesso motivo, non credo sia qualcosa che possa spiegarsi tramite argomentazioni ordinarie e/o empiriche. Sono certezze che vengono a galla  entrando in contatto con le persone, gli oggetti, le abitudini, i cibi e le bevande, la musica; insomma, con tutto quello che è la produzione materiale (o immateriale) che riguarda queste genti d’Europa. Con una semplice ma sostanziale differenza: Qui “l’Europeità” (l’essere europeo) esiste ancora, in noi è pressoché morto (uso il pressoché per un onesto beneficio del dubbio che deriva dal non aver visitato tutta l’Europa occidentale).
L'Europa ha diversi cuori: uno in Lituania, uno nei Carpazi, uno in Polonia. Tutto ciò dipende da come si misura l'Europa. Quello che è certo è che più alta che larga. Il centro dell'Europa non è per il momento che una pallida imitazione dell'occidente, dove vi si ritrovano vigorose tracce d'oriente. Questa miscela di elementi slavi ed ebraici, che sono l'anima profonda dell'Europa, l'ho trovata solo in queste regioni di frontiera. È in questi posti, in Russia, in Ucraina, in Polonia, che secondo me batte il cuore dell'Europa così come la immaginavo e la cercavo: una sorta di femminilità materna dai grandi fiumi.[1]
E come altro percepire la grande madre, il Danubio. La discordanza non è casuale; nella maggior parte dei territori d’oriente il suo nome è di genere femminile: Duna, Dunarea, etc. Un fiume che già appare immenso a guardarlo da google maps, o dalle foto sul web. Una corrente misteriosa, che trasporta più metri cubi di storia che di acqua; sorgente pura e allo stesso tempo contaminazione costante, un legame interculturale che dalla mittleeuropa sfocia del Mar Nero, passando per la Pannonia, i Balcani e i Carpazi. Ho la testa talmente stracarica di pensieri, immagini e stimoli raccolti e germogliati in oltre un anno che quando mi indicano la sua presenza invitandomi a guardare attraverso il finestrino dell’aereo, io all’inizio non sono in grado di vederlo. Mi ci vuole qualche secondo. Poi lo vedo.










Solo Dio e il finestrino sanno che espressione di stupore infantile dovevo avere in quel momento. Immagino, più o meno, quella di un bambino che vede il panorama oltre il promontorio di Capo Caccia per la prima volta. E’ immenso. Così grande che dove finisce il paesaggio o esso cambia lui sfonda senza troppe cerimonie la linea dell’orizzonte. Si vede sempre, anche dall’aereo. Una presenza costante… come una madre. Ci accompagna per tutta la discesa fino all’aeroporto di Bratislava. Lo ritroveremo a Gyor, in una sua diramazione, e più tardi nella sua interezza solcando Budapest.

Atterraggio. Scarico bagagli e passeggeri. Procedura ordinaria di un aeroporto; ciò che non è ordinario è quello che si percepisce quando si esce da quell’enorme portale semantico che è un aeroporto. C’è sempre un passaggio di stato quando calpestiamo il territorio al di fuori del confine fisico di questa infrastruttura. La maggior parte delle volte non ne siamo consapevoli, ma basta soffermarsi un attimo prima di attraversare l’ingresso. E’ una sorta di “sono qui”, dove bisogna ancora capire qual è il concetto che con più forza si fa sentire in questo cambiamento di stato; se sia esso “sono” oppure “qui”. Lasciamo immediatamente la terra slovacca, con buone probabilità le verrò incontro in futuro per un tempo più ragionevole.




Il conducente di questa simbolica carrozza che mi porta al castello incantato e’ il padre del mio amico, il quale prova a spiccicarmi qualche parola in ungherese che io capisco a intermittenza. Ma non è solo la barriera linguistica a impedirmi di capirlo. E’ anche il costante bombardamento di stimoli e sensazioni che è aumentato in maniera esponenziale durante tutto il volo e che ora è totalmente fuori controllo. Mi conduce senza difficoltà, e senza difficoltà mi lascio condurre. Non ho mai visto un verde così vivo, rigoglioso. Ti viene voglia di correre per questa pianura infinita in cui si trovano, come piccole isole, dei gruppetti di boschi. E se viene voglia di correre a me, questa può essere una prova c’è davvero qualcosa di vivo in questi luoghi, nascosto eppure evidente, che palpita costantemente. Ci siamo quasi, dopo un’oretta di iperspazio mentale; salutiamo la diretta per Budapest e prendiamo la rampa che ci porta a Gyor, altri tre minuti di macchina. Incomincia ad intravedersi il disegno di queste città,  la tensione è ai massimi livelli.



Un cartello, una chiesa, le forme e i contorni urbani che volevi, cercavi, aspettavi. Un ponte, una macchia indefinita ed estesa di alberi; più oltre, le mura della città antica. Parcheggio, si spengono i motori. Si apre lo sportello della macchina, scendiamo.
Silenzio.
Itt vagyok.       Sono qui.





[1] Paolo Rumiz, Il cuore dell’Europa batte a est,  intervista di Gian Paolo Accardo, Agosto 2011,  PressEurop, http://www.presseurop.eu/it/blog?page=7