Danubio. In questo momento vorrei che le mie parole
scorressero come le tue acque, e che avessero la forza della tua corrente. E
invece non riesco a dire proprio niente. E ce ne sarebbe,
saprei che cosa, mille volte ti ho pensato; eppure eccomi ridotto al quasi
totale silenzio. Tu richiedi profondità, ed io sono saturo di superficialità.
C’è qualcosa che ho perso, prima di arrivare qui. Una chiave di lettura che mi
ha condotto da momentanee fantasie a calpestare terra magiara. A sentire odore
di frontiera per la prima volta davvero. A guardare la Storia che cozza con un
passato glorioso e un futuro che vuole esser altro, insomma un tentativo di
nasconderla rozzo e puntualmente fallimentare. Ma è questo costante tentativo,
questa contraddizione pulsante che sprigiona il profumo di un popolo, e di un
insieme di popoli, che dietro questa linea di apparente diversità e alterità
dal nostro perfetto occidente sgomita e spinge, cercando una via di uscita;
mostrando a chi osa vedere dietro una cortina non ancora caduta un’essenza e
una vitalità arcaica e indomita, che proviene dalle viscere e che noi
probabilmente abbiamo perso per sempre.
E’ indubbio, oltre che produttivo, che nel raccontare ci
guidi la nostra soggettività. Ma tale aspetto della forza vitale di questi
popoli accennato qui sopra non sono ancora riuscito a spiegarlo con le parole.
E tantomeno, per questo stesso motivo, non credo sia qualcosa che possa
spiegarsi tramite argomentazioni ordinarie e/o empiriche. Sono certezze che
vengono a galla entrando in contatto con
le persone, gli oggetti, le abitudini, i cibi e le bevande, la musica; insomma,
con tutto quello che è la produzione materiale (o immateriale) che riguarda
queste genti d’Europa. Con una semplice ma sostanziale differenza: Qui “l’Europeità”
(l’essere europeo) esiste ancora, in noi è pressoché morto (uso il pressoché per
un onesto beneficio del dubbio che deriva dal non aver visitato tutta l’Europa
occidentale).
“L'Europa ha diversi
cuori: uno in Lituania, uno nei Carpazi, uno in Polonia. Tutto ciò dipende da
come si misura l'Europa. Quello che è certo è che più alta che larga. Il centro
dell'Europa non è per il momento che una pallida imitazione dell'occidente, dove
vi si ritrovano vigorose tracce d'oriente. Questa miscela di elementi slavi ed
ebraici, che sono l'anima profonda dell'Europa, l'ho trovata solo in queste
regioni di frontiera. È in questi posti, in Russia, in Ucraina, in Polonia, che
secondo me batte il cuore dell'Europa così come la immaginavo e la cercavo: una
sorta di femminilità materna dai grandi fiumi.[1]”
E come altro percepire la grande madre, il Danubio. La discordanza
non è casuale; nella maggior parte dei territori d’oriente il suo nome è di
genere femminile: Duna, Dunarea, etc. Un fiume che già appare immenso a
guardarlo da google maps, o dalle foto sul web. Una corrente misteriosa, che
trasporta più metri cubi di storia che di acqua; sorgente pura e allo stesso
tempo contaminazione costante, un legame interculturale che dalla mittleeuropa
sfocia del Mar Nero, passando per la Pannonia, i Balcani e i Carpazi. Ho la
testa talmente stracarica di pensieri, immagini e stimoli raccolti e
germogliati in oltre un anno che quando mi indicano la sua presenza invitandomi
a guardare attraverso il finestrino dell’aereo, io all’inizio non sono in grado
di vederlo. Mi ci vuole qualche secondo. Poi lo vedo.
Solo Dio e il finestrino sanno che espressione di stupore infantile dovevo avere in quel momento. Immagino, più o meno, quella di un bambino che vede il panorama oltre il promontorio di Capo Caccia per la prima volta. E’ immenso. Così grande che dove finisce il paesaggio o esso cambia lui sfonda senza troppe cerimonie la linea dell’orizzonte. Si vede sempre, anche dall’aereo. Una presenza costante… come una madre. Ci accompagna per tutta la discesa fino all’aeroporto di Bratislava. Lo ritroveremo a Gyor, in una sua diramazione, e più tardi nella sua interezza solcando Budapest.
Atterraggio. Scarico bagagli e passeggeri. Procedura ordinaria
di un aeroporto; ciò che non è ordinario è quello che si percepisce quando si esce
da quell’enorme portale semantico che è un aeroporto. C’è sempre un passaggio
di stato quando calpestiamo il territorio al di fuori del confine fisico di
questa infrastruttura. La maggior parte delle volte non ne siamo consapevoli,
ma basta soffermarsi un attimo prima di attraversare l’ingresso. E’ una sorta
di “sono qui”, dove bisogna ancora capire qual è il concetto che con più forza
si fa sentire in questo cambiamento di stato; se sia esso “sono” oppure “qui”.
Lasciamo immediatamente la terra slovacca, con buone probabilità le verrò
incontro in futuro per un tempo più ragionevole.
Il conducente di questa simbolica carrozza che mi porta al castello incantato e’ il padre del mio amico, il quale prova a spiccicarmi qualche parola in ungherese che io capisco a intermittenza. Ma non è solo la barriera linguistica a impedirmi di capirlo. E’ anche il costante bombardamento di stimoli e sensazioni che è aumentato in maniera esponenziale durante tutto il volo e che ora è totalmente fuori controllo. Mi conduce senza difficoltà, e senza difficoltà mi lascio condurre. Non ho mai visto un verde così vivo, rigoglioso. Ti viene voglia di correre per questa pianura infinita in cui si trovano, come piccole isole, dei gruppetti di boschi. E se viene voglia di correre a me, questa può essere una prova c’è davvero qualcosa di vivo in questi luoghi, nascosto eppure evidente, che palpita costantemente. Ci siamo quasi, dopo un’oretta di iperspazio mentale; salutiamo la diretta per Budapest e prendiamo la rampa che ci porta a Gyor, altri tre minuti di macchina. Incomincia ad intravedersi il disegno di queste città, la tensione è ai massimi livelli.
Il conducente di questa simbolica carrozza che mi porta al castello incantato e’ il padre del mio amico, il quale prova a spiccicarmi qualche parola in ungherese che io capisco a intermittenza. Ma non è solo la barriera linguistica a impedirmi di capirlo. E’ anche il costante bombardamento di stimoli e sensazioni che è aumentato in maniera esponenziale durante tutto il volo e che ora è totalmente fuori controllo. Mi conduce senza difficoltà, e senza difficoltà mi lascio condurre. Non ho mai visto un verde così vivo, rigoglioso. Ti viene voglia di correre per questa pianura infinita in cui si trovano, come piccole isole, dei gruppetti di boschi. E se viene voglia di correre a me, questa può essere una prova c’è davvero qualcosa di vivo in questi luoghi, nascosto eppure evidente, che palpita costantemente. Ci siamo quasi, dopo un’oretta di iperspazio mentale; salutiamo la diretta per Budapest e prendiamo la rampa che ci porta a Gyor, altri tre minuti di macchina. Incomincia ad intravedersi il disegno di queste città, la tensione è ai massimi livelli.
Un cartello, una chiesa, le forme e i contorni urbani che
volevi, cercavi, aspettavi. Un ponte, una macchia indefinita ed estesa di
alberi; più oltre, le mura della città antica. Parcheggio, si spengono i
motori. Si apre lo sportello della macchina, scendiamo.
Silenzio.
[1] Paolo
Rumiz, Il cuore dell’Europa batte a est, intervista di Gian Paolo Accardo, Agosto 2011,
PressEurop, http://www.presseurop.eu/it/blog?page=7
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