sabato 18 gennaio 2014

Sul perché noi architetti non possiamo concederci di metterci in tasca la Storia

In un’epoca come la nostra siamo abituati a dare per scontato, come un fatto normale, l’appiattimento della prospettiva storica come fenomeno di massa. In altri termini, ad un fatto collettivo di non conoscenza e non consapevolezza della Storia e delle sue dinamiche principali. Questo può essere conseguenza di tanti motivi, che non necessariamente si negano tra loro: vuoi perché una caratteristica della generazione contemporanea è la netta scissione di ogni legame tra il proprio presente e la storia immediatamente precedente e non; vuoi perché questa ignoranza è alimentata e promossa da sistemi che ne traggono l’indiscutibile vantaggio di governar meglio un gregge senza coscienza; sta di fatto che anche il nostro patrimonio culturale collettivo comune oggi è più la battaglia al fosso di Helm piuttosto che quella di Poitiers, più le vicende politiche degli Starks e dei Lannister che quelle di Germania, Russia e Inghilterra a metà ventesimo secolo.
                Eppure, definita questa inevitabile premessa, il passo successivo non sarà condannare la mia generazione. Anche perché se dovessi farlo non dovrei condannare solo essa, ma anche quella precedente e cioè quella a cui appartengono quei docenti universitari e non che, ben consapevoli del fenomeno, si limitano ad alzare le spalle ed abbassare il livello di rese e pretese dai loro studenti, poiché “questa è la società contemporanea”. Un circolo vizioso ben radicato, come si può ben vedere. Tuttavia, quello che mi interessa analizzare è un aspetto specifico e circoscritto di questo fenomeno generale e difficilmente arrestabile con qualche improvvisata panacea. Quello che voglio qui considerare è specificatamente in merito alla disciplina architettonica e al tipo di percezione che di essa viene promossa, nelle scelte e nelle omissioni che vengono operate. E in queste scelte e omissioni spesso c’è un rapporto coatto, scorretto e superficiale con, appunto, la Storia. Che riguarda l’architettura e gli architetti molto di più di quanto vien di solito fatto credere.
Posso già sentire le voci di protesta e vedere ben noti scudi di guerra sollevarsi in difesa del modus operandi attuale; arcieri scoccare gli slogan ben noti quali “è la crisi della modernità”, “è la libertà dell’architetto” e chi più ne ha più ne metta, e tutti insieme invocare la protezione di Le Corbusier egioco. Ma prima di finire ancora sotto quelle stesse frecce, c’è un fatto che voglio raccontare, c’è una via che vorrei far notare.
                Mentre leggevo l’altro giorno un bellissimo saggio intitolato Contro l’Architettura, di Franco La Cecla, mi sono imbattuto in una affermazione abbastanza forte, per me amante e dilettante dell’architettura:
"D’altro canto non era questa la risposta che dava Mies van der Rohe, in avanzato nazismo, a chi lo criticava di essere un collaborazionista? ‹‹Gli artisti hanno sempre lavorato per i potenti, perché stupirsi?››. Pochi ricordano che Mies garantì al nazismo la riapertura di un Bauhaus ripulito dagli elementi infestanti ebraici, e che quando decise di abbandonare la Germania per gli Stati Uniti lo fece soltanto perché aveva perduto il concorso per la ricostruzione di Berlino, che il Führer aveva deciso di assegnare all’amichetto Albert Speer. Insomma, la vecchia storia del film Mefisto.[1]"
Leggere queste parole è stato come prendere un pugno in faccia. Pensavo e speravo fosse solo una debolezza e una fantasia di pessimo gusto dell’autore, benché questo fosse molto improbabile vista la ricchezza e la densità del testo letto fino a quel momento. Ed infatti non lo era, perché a piè pagina si trovava il riferimento da cui tale affermazione veniva estratta, con tanto della più dettagliata indicazione in bibliografia [2]. A questo punto dell’argomentazione ci troviamo di fronte a due scelte: o rigettare completamente l’autorità della bibliografia e quindi del libro, o pure prendere in considerazione la possibile veridicità e plausibilità di una tale affermazione finita in un saggio critico. Ma se ci riteniamo intellettualmente onesti non potremo negare a priori un’affermazione così argomentata e supportata, dovremo necessariamente tenerla in considerazione e rifletterci almeno un po’, in quanto architetti. Quello che mi ha sorpreso non è scoprire l’eventuale pochezza morale di Mies van der Rohe in quel momento storico, non è questo che crea lo scandalo: ci sono stati molti altri intellettuali di altro tipo che hanno avuto una, per così dire, “fase ambigua” e più avanti ne porterò qualche esempio. Quello che mi ha lasciato di stucco è che nessuno, in ambito universitario né altrove, faccia cenno a questi episodi, forse sapendo quanto stonerebbero nell'idillico e imperituro mondo degli architetti. E questo che voglio contestare, criticare, perché credo sia molto grave. Non me la prendo con la Storia (e quindi con Mies van der Rohe in questo caso) ma con la pressoché nulla percezione di essa che ci viene insegnato più o meno esplicitamente ad avere in quanto architetti e/o studenti di architettura, o ancora cultori del mestiere, come si suol dire. Me la prendo con questo modo di fare perché è veramente assurdo e inconcepibile che si possano studiare, affrontare degli autori senza conoscere la loro storia individuale e le vicende storiche che li hanno segnati. Non contestualizzare un autore che si prende come esempio da ammirare e imitare significa inevitabilmente coltivare una percezione distorta di esso e della sua produzione. Infatti tutti noi siamo pronti a giudicare storicamente e moralmente l’opera e la persona di Albert Speer, l’architetto di Hitler, senza troppe esitazioni. Allo stesso modo tutti riconosciamo la grandezza dell’opera di Mies. Ma se invece fosse avvenuto il contrario, se anche una sola opera di Mies fosse rientrata nella cerchia di quelle del regime al quale egli per un periodo non si è opposto, come guarderemo oggi a questo personaggio? Non credo allo stesso modo in cui lo facciamo attualmente. Quindi cosa succede quando siamo pieni di percezioni distorte su ciò che prendiamo come modello di riferimento e di cui facciamo uso? Esattamente quello che è successo con Nietzsche e le sue opere nel XX secolo, il cui pensiero è stato completamente stravolto. O, se volete un esempio più recente, quello che sta succedendo con Casa Pound che da poco ha celebrato i 15 anni dalla morte di de André e, così facendo, si appropria, distorcendolo e neutralizzandolo, di un sistema di significati e idee che tutto è fuorché compatibile con Causa Pound.
                Per essere ancora più chiaro voglio portare un altro esempio. C’è un filosofo le cui opere e idee sono state di indiscutibile importanza nella storia del pensiero occidentale del XX secolo. Sto parlando dell’autore di Essere e Tempo, Martin Hedegger. Ebbene, questo signore dalla mente sopraffina è stato anch’esso legato in una certa misura e per un certo periodo di tempo al movimento nazionalsocialista. Ora, nessun studioso di filosofia oggi penserebbe mai di affrontare il pensiero di questo autore a prescindere dal  suo periodo storico e dal suo rapporto con esso. Perché quindi noi dovremmo farlo, con l’architettura e gli architetti? Per quale motivo ci ostiniamo a non voler affrontare le questioni storiche? In nome di quale pudore? Dietro quale ragionevole scudo, o scusa? E’ questo che mi chiedo e che vorrei tutti ci chiedessimo. Perché, se tutti gli architetti trascendono il loro periodo storico, allora sono tutti dei superuomini in senso morale. Sono delle specie di divinità in terra, che stanno al di fuori della storia.
                E non è in effetti questo l’atteggiamento con cui oggi tendenzialmente si guarda agli architetti contemporanei più famosi, alle loro opere? Esse cadono come oro colato sopra di noi, e vengono accettate nel loro in blocco, senza esitazione. Come se avessero raggiunto una qualche forma di conoscenza divina e di tanto in tanto ci portino in dono dei loro miracoli. Gli architetti così concepiti (e percepiti) stanno oltre la storia in una prospettiva di moralità assoluta. E per questo possono riempirsi la bocca di parole come sostenibilità, socialità, social-housing, eco-friendly e altri termini col cui uso e abuso oggi siamo alla quasi saturazione completa e il cui senso è stato completamente perduto. Quello che sta succedendo e che succederà, se si continua in questa direzione, è che di tutto si occuperanno gli architetti nel loro mestiere, tranne che del loro mestiere: costruire per l’uomo, costruire un ambiente a misura d’uomo. Possiamo leggere anche in quest’ottica, e credo di non esagerare, la presa di popolarità del rendering come metodo di rappresentazione e di processo architettonico a discapito del disegno a mano propriamente e coscientemente inteso: esso rende infatti possibile quel tipo di rappresentazione idilliaca necessaria a questa concezione dell'architetto. Se infatti  essi continueranno ad essere studiati, e quindi percepiti, a priori dalla storia, fuori dalle questioni morali e quindi morali in senso assoluto (anche nel significato etimologico del termine: dal latino ab-solutus, “sciolto da, slegato da”), allora questo vorrà dire che le loro scelte potranno sempre essere giustificate, le loro macchie e i loro errori elusi, ed essi riusciranno ad essere sempre nel giusto e privi di errore poiché essi sono beyond history: e da tali oggi la società li tratta.
Con ciò intendo semplicemente dire che personalmente sono contro quest’ottica delle cose e che credo sia seriamente arrivato il momento di iniziare tutti a rifletterci. Nessuno è fuori dalla storia, tantomeno gli architetti. Tantomeno le utopie che hanno caratterizzato le loro opere, come le utopie politiche, filosofiche e artistiche. Tantomeno gli uomini, prima che il loro essere architetti. E quindi cominciare a considerare in modo intellettualmente onesto tutta la loro opera e le loro vicende nella storia. Vincere finalmente il senso di sottomissione imposto o autoimposto verso i “grandi personaggi” della nostra disciplina e considerarli finalmente in modo organico, completo, nelle loro sfaccettature.

E poter finalmente dire, per esempio, che se Mies van der Rohe ha veramente lasciato la Germania nazista non per obiezione di coscienza ma per un concorso perduto, egli ha comunque dato un grande esempio di spazialità e un indiscutibile indirizzo alle vicende architettoniche successive, ma la scelta sociale e morale che vorremmo prendere in quanto professionisti sarà tutto fuorché così infinitamente bassa sotto il profilo civile, umano e, soprattutto, professionale.




[1] Franco la Cecla, Contro L’Architettura. Torino, Bollati Boringhieri editore, 2008.
[2] La storia dell’episodio è riportata in nota bibliografica e proviene dalla seguente fonte:
   E. S. Hochman, Architects of Fortune. Mies van der Rohe and the Third Reich, Fromm International, New York 1990.